l’IOCORNO Una pagina al giorno “Guarire ogni giorno” di Pietro Archiati

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INDICE

Prefazione pag. 9

I. LA MALATTIA: UN INVITO A INVENTARSI LA GUARIGIONE pag. 11

L’uomo è fatto solo di corpo e anima, o c’è anche lo spirito? pag. 11

Chi si ammala e chi guarisce: Il corpo o l’uomo intero? pag. 18

La bella differenza tra “essere” sani e “diventare” sani pag. 23

L’importanza del “processo” di guarigione nei Vangeli pag. 26

La forza terapeutica dell’amore pag. 29

Il coraggio di guarire pag. 31

Le malattie in relazione all’uomo completo pag. 33

Perché sono nato così? Chi mi ha fatto come sono? pag. 36

II. AGGRESSIVITÀ E DEPRESSIONE: L’ALTALENA DELLA VITA pag. 47

Il significato tutto positivo della malattia pag. 47

L’altalena tra aggressività e depressione pag. 50

L’aggressività nasce di fronte a un male che c’è pag. 56

La depressione sorge di fronte a un bene che non c’è pag. 59

Il pendolo tra aggressività e depressione nei diversi archi di tempo pag. 62

Il pareggio tra essere aggressivi e depressivi pag. 66

Il troppo, il troppo poco e il giusto mezzo in Aristotele pag. 70

III. IL MATERIALISMO D’OGGI: GRANDE MALATTIA O GRANDE TERAPIA? pag. 73

La pranoterapia e i diversi tipi di forze “eteriche” pag. 73

Il dogma del materialismo: «L’uomo è un animale superiore» pag. 79

Il totalitarismo del materialismo: vivere di brame per soddisfare infi niti bisogni pag. 83

Effetti del materialismo sul corpo, sull’anima e sullo spirito dell’uomo pag. 90

L’attaccamento alla materia e l’identificazione con essa pag. 92

Astrazioni e illusioni del materialismo pag. 95

Lo spirito ignora se stesso, l’anima ha paura, il corpo si disgrega – e sorge l’AIDS pag. 70

IV. GUARIRE CON LA VERITÀ, LA BELLEZZA E LA BONTÀ pag. 103

Guarire col pensiero pag. 104

Guarire ogni giorno con l’arte pag. 109

Guarire praticando la religione dell’uomo pag. 116

La terapia universale della libertà e dell’amore pag. 122 Prima conversazione pag. 127

Seconda conversazione pag. 142

Terza conversazione pag. 159

Quarta conversazione pag. 180

Appendice: I trapianti di organi pag. 193

Prefazione alla terza edizione

Queste pagine parlano di problemi di vita che ci riguar- dano molto da vicino. Chi di noi non si confronta con la realtà della paura, dell’aggressività, della depressione e dei più vari stati patologici?

Gli esseri umani si trovano oggi alle prese con malattie del tutto nuove e, al contempo, è sempre più forte l’esigenza della cultura materialistica che vorrebbe farle sparire tutte.

Viene proposta in queste pagine – che sono tratte dal dialogo diretto con molte persone in occasione di convegni e seminari – una nuova visione dello stato di malattia, di vederlo e viverlo cioè come un’occasione di crescita tutta positiva per lo spirito e l’anima umani. Vivere la positività della sofferenza, togliendole gli aspetti di tragicità, ingiusti- zia e mortificazione, è possibile quando si considera l’uo- mo nella sua interezza. Lo spirito di ogni uomo, il suo Io, liberamente cerca lo stato di malattia come una lotta tutta positiva che lo rafforza; se la sua anima vive da “paziente”, cioè senza insofferenza, il processo verso la guarigione, allora anche il corpo si risana.

Una moderna scienza della realtà dello spirito consente di vagliare l’ipotesi che la malattia non sia una “disgrazia”, ma la scelta consapevole che ognuno di noi fa ad un livello più ampio della sua coscienza – quello dello spirito, appunto. In questo modo esercita la propria sovranità libera e creativa nella vita, a cui restituisce la dimensione terapeutica, espres- sione di conoscenza e di amore verso sé e verso gli altri.

I. LA MALATTIA: UN INVITO A INVENTARSI L A GUARIGIONE

L’uomo è fatto solo di corpo e anima, o c’è anche lo spirito?

Ogni essere umano fa più volte nella vita l’esperienza della malattia e della sofferenza, ma anche quella della terapia e della guarigione. Già ai primordi dell’evoluzione è stato chiesto a Caino: “Dov’è tuo fratello?”, e Caino ha risposto: “Sono forse io il custode di mio fratello?”. In queste parole rivolte al primo “omicida” è racchiuso il mistero del dolore che gli esseri umani si provocano a vicenda. Ma anche la possibile terapia, propria del convivere quotidiano, dove ogni uomo è chiamato ad aiutare il fratello, ad essere cioè terapeuta. Il cosiddetto “sociale” è il contesto curativo in cui tutti ritroviamo ogni giorno la salute, ma è anche quello che ci fa ammalare in modi sempre diversi e insospettati.

Vanno quindi ampliati gli orizzonti d’indagine sulla realtà della malattia e della terapia. A questo scopo è molto interessante considerare non solo la realtà del corpo dell’uomo, ma anche la componente animica e quella spirituale dell’uomo.

La dimensione fisica è praticamente la sola a cui oggi ci si rivolge, benché negli ultimi tempi l’intento terapeutico, grazie alla psicologia e all’arte, stia prendendo sempre più sul serio la realtà dell’anima. Ma la terza grande dimensione umana, quella dello spirito vero e proprio, viene ancor oggi quasi del tutto ignorata, o tutt’al più identificata con la sfera dell’anima.

Eppure, la distinzione tra anima e spirito non è meno importante di quella tra anima e corpo. Nella cultura occidentale, a partire dal Medioevo, non si è più parlato della “tricotomia” di corpo-anima-spirito – ancora chiaramente presente negli scritti di Platone o di Paolo di Tarso –, ma solo della “dicotomia” anima-corpo. La scienza moderna, psicologia compresa, non ha fatto altro che recepire questo dogma cattolico secondo il quale l’uomo è costituito soltanto di corpo e di anima. La scienza naturale, poi, ha messo in dubbio anche la realtà autonoma dell’anima, considerando reale e causante solo il corpo. Ha ripetuto così nei confronti dell’anima ciò che la Chiesa aveva fatto prima nei confronti dello spirito.

La psicologia moderna è però più che mai in grado, a partire dalle sue stesse premesse, di adempiere all’immane compito culturale della riscoperta dello spirito, proprio grazie a un approfondimento dei fenomeni dell’anima che indaga, e nei quali opera.

Il punto di partenza potrebbe essere proprio una più spregiudicata riflessione sulla classica polarità pazienteterapeuta, con tutti i suoi risvolti a volte anche drammatici. Il paziente si pone strutturalmente in posizione di passiva ricezione di chi è “malato” e il terapeuta assume il ruolo attivo di colui che cura. È importante notare le implicazioni di questa polarità fondamentale.

Se noi chiamiamo “anima” l’esperienza che l’essere umano fa di sé quando vive da “paziente” – paziente viene da patire in quanto opposto ad agire -, non dovremmo chiamare ugualmente “anima” ciò che ne è l’opposto. Se il paziente è un puro essere animico in quanto è divenuto profondamente passivo, dipendente, la cura gli può venire solo da un essere che viva nel polo opposto, in quello dell’attività e della creatività. Questo polo opposto all’anima è stato da sempre chiamato “spirito”.

Se lo psicologo vivesse come il paziente nel puro mondo dell’anima, invece di curare raddoppierebbe la malattia, perché questa consiste proprio nel fatto che il paziente si è ridotto ad essere solo paziente-passivo. Una cultura che ritenga l’uomo costituito solo di corpo ed anima, lo condanna ad essere un eterno paziente, perché lo ritiene capace solo di subire la vita e gli eventi in cui si trova.

Il vero avvenire di ogni terapia risiede allora nello sforzo di comprendere la polarità che c’è tra il puro vissuto passivo e il cosciente prender attivamente posizione. L’anima è la risonanza interiore di tutte le esperienze vissute; lo spirito è la capacità attiva di capirle per intervenirvi liberamente e sensatamente.

Chiamare tutt’e due i mondi semplicemente “anima”, significa considerare due realtà opposte come se fossero la stessa cosa. Vuol dire considerare l’elemento curante alla stregua di ciò che ci fa ammalare. L’uomo è malato quando diventa interiormente passivo (quando si riduce ad anima), e vive la salute nella misura in cui diviene interiormente attivo (quando si apre allo spirito). Vedremo in seguito che il vero significato della parola “paziente” non sta ad indicare colui che subisce la malattia, ma colui che agisce in modo contrario all’“insofferente”. Chi esercita attivamente la pazienza non rifiuta il suo stato di disarmonia. E questo è un lavoro tutto spirituale. Essere “un paziente” nella realtà fisica è quindi la migliore occasione per diventare “un agente” nella propria interiorità spirituale.

La distinzione fondamentale tra l’essere attivi (spirito) e l’essere passivi (anima) porta con sé altre distinzioni non meno importanti. Il mondo dell’anima è puramente personale e soggettivo, in fondo non comunicabile. Solo ciò che è oggettivo può essere condiviso e può creare relazione. Vivere nell’anima vuol dire vivere chiusi in sé – nel mondo delle proprie emozioni e dei propri sentimenti –, e vivere nello spirito vuol dire comunicare con gli altri in base a un mondo oggettivo che è comune a tutti.

Se chiamiamo “anima” l’essere umano che vive nei sentimenti ed è in balìa di essi, non possiamo chiamare altrettanto “anima” l’essere umano che li signoreggia e li trasforma. L’umanità moderna ha dimenticato lo spirito perché l’ha trascurato fino all’inverosimile, lo ha reso così rachitico da non vederlo più. L’ha fatto quasi sparire per poi dichiarare comodamente che non c’è. La vera terapia al livello dell’anima umana consiste nel risvegliare lo spirito che la nostra cultura ha reso sempre più insonnolito. Il mito della vita comoda è una forte dose quotidiana di sonniferi per lo spirito. Vero terapeuta dell’anima umana può essere solo colui che conosce la forza evocatrice ed educatrice dello spirito. La voce solare e la forza solerte dello spirito suscitano nell’anima ciò che in lei è già implicito. L’anima umana è nel suo essere stesso          potenzialità allo spirito, anelito inarrestabile verso lo spirito. La passività interiore che sappia riconoscersi come tale, non può voler restare così.

L’animale è un essere di natura ma non si può dire che sia animicamente passivo, perché non è capace di diventare attivo. L’uomo, invece, ha creato con il pensare il concetto di passività – distinguendolo dall’attività – proprio perché è realmente capace di interiore attività. Se l’azione creatrice non facesse parte del suo essere non la potrebbe neppure pensare, non ne potrebbe neppure parlare.

Solo lo spirito può guarire l’anima. Ammalarsi è ridursi al puro vissuto animico, è sentirsi effetto di infinite cause senza riuscire a diventare a propria volta causa di infiniti effetti. Il paziente è allora un vero e proprio caso di “psicopatia” che va in cerca, nel suo Io vero e profondo, di un’autentica “pneumatoterapia”, cioè di una terapia che parta dal suo stesso spirito (pnèuma, in greco).

Stando però alla prassi terapeutica oggi in vigore, con un po’ di coraggio e di spregiudicatezza ci tocca dire: il paziente va dal medico perché, vivendo se stesso come passivo e dipendente, cerca un ulteriore rapporto di dipendenza che lo confermi nella sua pigrizia, e lo culli nell’illusione di poter continuare così. Ma la sola cura vera potrà consistere nell’amorevole rifiuto di questo rapporto di gestione dal di fuori, che raddoppierebbe la dipendenza e renderebbe il cosiddetto paziente ancora più inerte, esponendolo a successive depressioni sempre più sofferte.

La distinzione tra anima e spirito non è allora una pura questione di terminologia, ma indica la capacità di cogliere nell’uomo altri due mondi reali, oltre a quello fisico. Questi sono talmente diversi l’uno dall’altro da sollecitare un continuo movimento che li pone in interazione fra loro. Invece, la malattia cronica della nostra cultura materialistica consiste nell’immobilità interiore, nel dogma che decreta: lo spirito non esiste.

L’anima desidera sbarazzarsi della malattia proprio perché in essa incontra la sfida che le offre lo spirito a diventare sempre più attiva. Lo spirito, invece, desidera procurarsi la malattia, proprio perché la lotta contro di essa genera forze tutte positive nell’interiorità dell’uomo.

La prospettiva di un’ulteriore evoluzione della moderna psicologia che sappia aprirsi alla dimensione specifica dello spirito, consente anche una nuova interpretazione della polarità fra conscio e subconscio. La psicoanalisi ha fatto e fa tuttora molto per aiutare l’essere umano a sollevare nella regione chiara della coscienza i molti strati del proprio essere ancora oscuri. Resta però un problema di fondo irrisolto quando lo psicoanalista, o lo psicologo o lo psichiatra, parlano di subconscio: è il fatto che essi ne parlano “consciamente”. Quindi l’oggetto del loro discorso non è per natura inconscio, ma semplicemente non ancora noto alla coscienza della persona che hanno davanti.

La coscienza umana ha potenzialmente la capacità di scandagliare tutto il reale. Nulla è per essenza non conoscibile al pensare umano. Quel che a un certo gradino evolutivo non è ancora conscio, può diventarlo in un tempo successivo. Importante è allora che io comprenda che ciò che la mia coscienza ordinaria oggi ancora non abbraccia non è “sotto” bensì “sopra” di essa. Esiste una coscienza superiore, che è quella del mio Io vero, che io tendo a reprimere non in basso, ma in alto, impedendole di scendere per via ispirativa a illuminare la mia coscienza ordinaria.

Il sovraconscio è il polo opposto del subcoscio vero e proprio, è per la mia anima la sfera specifica dello spirito. In quanto spirito io divento l’architetto attivo e creatore di quel karma (o destino) che prevede tante prove (e perciò anche tante malattie), proprio per concedermi tante occasioni di crescita.

Il subconscio è invece il regno dell’istintuale puro, è il dato cieco di natura – la sfera del corpo – che opera in me e di fronte al quale io sono impotente, perché non partecipo in alcun modo alla sua creazione e al suo funzionamento.

L’anima – che altro non è se non la coscienza or- dinaria – oscilla fra il subconscio e il sovraconscio, e può aprirsi verso tutt’e due le direzioni. Verso il basso si involve, accrescendo la sua condizione di dipendenza e passività, verso l’alto si evolve, illuminandosi dei contenuti di una coscienza superiore.

Il compito culturale della psicologia non consiste solo nel sollevare a coscienza l’esistenza degli istinti inferiori, o di tutto ciò che l’uomo reprime facendolo ricadere allo stato di inesorabile natura, ma consiste più ancora nel far discendere dall’alto i contenuti di coscienza dell’Io sovra- conscio che vede la positività di ogni evento di vita.

Come può essere terapeutico per l’anima venire esposta solo al subconscio, di fronte al quale essa è per natura impotente? Un incremento di coscienza in quella direzione non può che intensificare nell’uomo la paura. L’anima diventa così più consapevole del suo lato di impotenza, si trova cioè scaraventata in ambiti ancora più minacciosi, cioè prima sconosciuti, di questa sua stessa impotenza. Il risultato finale è, nel migliore dei casi, un rimestare rassegnato o cinico in ciò che ineluttabilmente sembra condizionare e dominare la vita dell’uomo. Sono sempre più numerosi gli psicologi che riconoscono questo limite assoluto della psicologia del subconscio.

Ben altrimenti stanno le cose quando l’anima si volge nella direzione opposta, quella dello spirito, per far “calare” nella coscienza tutti i regni dell’umanamente possibile. Qui l’anima non incontra più le sue impotenze, ma impara a conoscere tutto ciò che può e che prima non sapeva di potere. Ed è questa è la vera terapia, la vera guarigione. L’anima umana scoppia di salute quando vive l’eco gioiosa e riconoscente delle infinite conquiste e creazioni rese possibili al suo spirito.

Chi si ammala e chi guarisce: Il corpo o l’uomo intero?

L’indagine sulla realtà complessiva dell’uomo non è sem- plice: si deve sempre far riferimento alla triade fonda- mentale corpo-anima-spirito, per affrontare in modo

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esauriente i processi di malattia e di terapia. Inoltre, ogni parte costitutiva dell’essere umano ha le sue leggi specifiche.

Ciò che è corporeo e visibile è sempre l’espressione, a livello di risultato e di conseguenza, di ciò che prima è stato vissuto nell’anima. Lo stesso possiamo dire dell’ani- ma nei confronti dello spirito: il vissuto animico è il risul- tato, l’effetto di ciò che prima è stato creato dallo spirito. Guardando dunque le cose dal punto di vista di causa e effetto e chiedendoci dove siano le cause prime, dovremo rispondere: esse sono sempre nello spirito.

Lo spirito è per natura causante, nel mondo della materia ci sono solo effetti. La materia è da un lato il risultato, dall’altro lo strumento delle creazioni dello spirito. Allo spirito è imma- nente la capacità di creazioni dal nulla, cioè di creazioni che non siano a loro volta l’effetto di una causa precedente. Un essere spirituale capace di pensiero autonomo, intuitivo e di volontà propria crea “dal nulla”. L’anima è già effetto di ciò che avviene nello spirito, e il corpo è un doppio mon- do di conseguenze, è il precipitato sia di ciò che avviene nell’anima, sia di ciò che crea lo spirito.

Senza dubbio gli eventi corporei possono di riflesso influire sia sull’anima, sia sullo spirito: ma sono influssi derivati, questi. È importante distinguere chiaramente tra cause prime e cause seconde (o di riverbero): il corpo ha la possibilità di agire sull’anima e sullo spirito unicamente in base a ciò che in esso sorge dapprima quale risultato di eventi animici e spirituali. In questo senso abbiamo senz’al- tro una causazione reciproca tra spirito, anima e corpo, ma

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solo l’operare dello spirito è primigenio e originario.
Il fatto che la realtà corporea sia divenuta sempre più determinante nell’autoesperienza dell’uomo moderno non va frainteso. La virulenza “causante” del corporeo nell’umanità attuale è essa pure l’effetto dell’aver a lungo trascurato l’azione causante dello spirito. Resta perciò vero anche qui il fatto fondamentale che le cause prime si trova-

no sempre nello spirito.
Stando così le cose, ne scaturisce per ogni impegno te-

rapeutico una prima conseguenza molto importante: l’in- tervento sul corporeo è una terapia al livello degli effetti, e perciò a corta scadenza; l’intervento sulla realtà dell’anima è a media scadenza; l’intervento sullo spirito è una terapia al livello delle cause prime, e perciò a lunga scadenza. Quando lavoriamo sullo spirito ci vuole più tempo per cambiarne la compagine, così che la sua azione si trasfonda poi nel- l’anima e dall’anima passi nel corpo.

Ciò vuol dire al contempo che è ben legittimo l’inter- vento medico e farmacologico a livello del corpo per risolvere i problemi specifici del corpo. E non solo è legittimo, ma necessario qualora la realtà corporea – in seguito a ciò che è avvenuto prima nello spirito e nell’anima – sia talmente compromessa da non consentire un libero e diretto agire sulla realtà dell’anima e dello spirito. Il lavoro del medico, se fatto con spirito di amore verso l’essere umano, è pura “magia bianca” perché è un intervento dello spirito sulla realtà del corpo, senza interazione di coscienza. Non si può interpellare il corpo per chiedergli se è d’accordo che gli si faccia questo o quest’altro.

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Però l’azione sul corpo, in ultima analisi, non può di per sè guarire l’essere umano; se è fatta bene, ottiene il risultato di ridare all’anima e allo spirito un sostrato corporeo che consenta di riprendere l’attività animica e spirituale vera e propria. Non più e non meno di questo si raggiunge con la medicina che si riferisce direttamente al corpo. Guarito il corpo, non è ancora guarito l’uomo. Se teniamo conto anche dell’anima e dello spirito, anche il concetto di guari- gione muta profondamente.

Se noi, sistemato il corpo, lasciassimo l’anima e lo spiri- to in tutto e per tutto com’erano prima della malattia cor- porea, cosa succede? Che la compagine animico-spirituale deve di nuovo cercare la malattia.

Molti pensano che le malattie vengano per caso. Ma “il caso” è soltanto una lacuna nel pensiero umano. Quando l’uomo non sa il perché e il percome di qualcosa dice: è per caso. Il motivo per cui lo spirito umano consciamente e liberamente vuole e crea una malattia è tutto ciò che si ri- promette di divenire proprio grazie alla lotta contro quella stessa malattia, in vista del suo superamento. Se lo scopo dello spirito fosse semplicemente quello di eliminare la ma- lattia, essa non avrebbe motivo di sorgere. Per lo spirito si tratta sempre di uno specifico sviluppo reso possibile solo da una ben precisa malattia.

La terapia artistica in tutte le sue forme è per eccellenza la terapia dell’anima. Intende essere un balsamo, una cura per ciò che esiste nel mondo dei sentimenti, aiuta a rista- bilire l’armonia interiore, a riscoprire la creatività, a dare slancio alla vita. È terapia dell’anima anche la psicoterapia

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propriamente detta in tutte le sue forme, fra cui la nota psicanalisi. Ho già accennato al fatto che, là dove questa tocca il suo limite, e lo ammette, dovrebbe, come dicevo, aprirsi verso la realtà vera e propria dello spirito.

Come la sostanza materiale del farmaco agisce sul corpo, così l’esercizio dell’arte e la psicologia operano in modo terapeutico nella realtà dell’anima. L’anima guarisce quando riscopre attraverso l’arte il senso della vita; però, prima o poi, ci si rende conto che curare solo l’anima non basta. Si ottiene un sollievo di natura effimera, perché nes- sun fenomeno dell’anima è in sè costante o duraturo. Ogni vissuto animico è passeggero, è fuggevole – nessuna gioia dura per sempre, come nessuna tristezza e nessun dolore –, mentre ciò che è spirituale ha il carattere della durata, della costanza. Ciò che è oggettivamente vero e buono oggi sarà vero e buono anche domani, come lo è stato ieri.

La terapia più profonda e duratura non può essere che una vera e propria arte e scienza dello spirito. Sarà una terapia a lunga scadenza, a lungo respiro; ma nel corso del tempo, dallo spirito si risanerà l’anima e risanando davvero l’ani- ma si potrà infondere sempre più salute anche al corpo. Il grande avvenire del lavoro terapeutico nell’umanità consi- sterà proprio nel compiere questo salto qualitativo. Come dal campo medico, che si occupa prevalentemente del cor- po, si è passati sempre più a prendere sul serio anche l’ani- ma, così il prossimo importante traguardo sarà quello di considerare tutto ciò che facciamo nel nostro spirito come una terapia a lunga scadenza che agisce su un’intera vita e mira ad una salute duratura nell’anima e nel corpo.

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La bella differenza tra “essere” sani e “diventare” sani

Può sembrare sorprendente, ma a pensarci bene, più che di essere sano, l’uomo gode di diventare sano.

Essere sano significa in fondo non aver nulla da fare; se la salute fosse un costante dato di fatto, dato sempre per scontato, non avremmo nessun compito terapeutico. In una visione integrale dell’uomo, la malattia non sorge mai per caso o per determinismo di natura, ma sempre in base a una libera scelta dello spirito. È l’Io vero1, della persona ammalata che vuol vivere lo sforzo che ci vuole per ridiventare sano. Nessuna malattia viene subita contro- voglia dall’Io vero, ognuna è da lui liberamente voluta. È solo alla coscienza ordinaria (all’anima) che sembra di

1 Con l’espressione Io vero o superiore o sovraconscio, si fa riferimento alla dimensione spirituale dell’individualità umana. L’io inferiore, quello della co- scienza normale, a cui facciamo quotidianamente riferimento, ne è soltanto il riflesso, è la coscienza speculare e passiva a carattere soggettivo, egoico ed egoistico. All’essere umano è oggi evolutivamente possibile cominciare a riconoscere e a riferirsi sempre di più al proprio io spirituale attuando- ne, nell’esercizio della libertà, sempre nuove dimensioni. L’Io superiore è anche l’artefice del destino (o karma) che ognuno di noi attraversa quale migliore contesto possibile di eventi, incontri, ambienti, rapporti, in vista della propria ulteriore evoluzione. Le forze conoscitive e amanti dell’io inferiore egoico (offuscate dall’interazione con la materia) sono deboli e, nell’esercizio del libero arbitrio, spesso si oppongono al destino quale vie- ne scelto liberamente dall’Io superiore.

L’io inferiore ordinario è ciò che abbiamo chiamato “anima”; l’Io su- periore è ciò che abbiamo chiamato “spirito”. L’animico in ognuno di noi c’è di per sé, è pura forza reattiva, non è libero e perciò è di natura “pas- siva” (fatto di “passioni”). Lo spirituale è libero, non c’è automaticamente e quindi il grande compito dell’uomo attuale è quello di conquistarselo, in misura sempre più piena.

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dover subire lo stato patologico, e quando fa questo vive nell’illusione, si pone in contraddizione col proprio essere più profondo.

È come quando si gioca: il senso del gioco non è nel suo terminare, ma nell’esercizio stesso del giocare. In modo analogo, il senso vero di una malattia non è che sparisca al più presto, che si cessi di fare i conti con la difficoltà, ma è proprio lo sforzo di occuparcene. Quando un essere uma- no vive una malattia il suo spirito vuole lottare con essa. Cerca l’esperienza interiore che può essere fatta solo grazie allo sforzo dovuto alla malattia. Quando poi la malattia è finita, è finito anche il vantaggio che porta. L’intento era di vivere ciò che avviene durante la malattia stessa. E perciò lo spirito umano vuol ricominciare da capo per restare sem- pre nell’esperienza del guarire in mille modi diversi.

Il compito degli eventi della vita è allora quello di pro- vocare continuamente nuovi squilibri, anche nel campo della salute. Non sia mai, si dice lo spirito umano, che in ambito terapeutico io non abbia più nulla da fare! E se la realtà mi propone sempre nuovi impegni terapeutici il compito della mia libertà è quello di svolgerli con altret- tanta fantasia e creatività, perché l’importante è proprio ciò che io divengo grazie a questo incessante dinamismo della vita.

In tempi di materialismo, in base al dogma della vita comoda, tanti pensano che il bene di una malattia sia di averla dietro alle spalle, di averla eliminata. Anzi, meglio ancora sarebbe se non fosse mai spuntata. Ma se la ma- lattia scompare e io sono rimasto tale e quale, questa stasi

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interiore è peggiore della malattia stessa. Il mio spirito si vedrà indotto a ricercarla di nuovo e in dose rincarata, visto che quando si è presentata lieve non è servita a nulla.

Se riusciamo a vedere le cose in questa prospettiva, sor- ge in noi la gioia di affrontare la malattia o la sofferenza quale invito a lottare per guarire, e alla fine ci diremo: ho conseguito nuove forze interiori grazie al lottare contro questa malattia.

Con il progresso della medicina molte malattie sono oggi scomparse. E proprio qui si pone una domanda di fondamentale importanza: cosa succede quando un’indivi- dualità s’incarna con l’intento di fare i conti con una speci- fica malattia, e proprio quella malattia è stata debellata dal progresso della scienza medica?

Questo spirito umano dovrà cercare per altra via la pro- pria evoluzione, fermo restando che quella specifica malat- tia sarebbe stata l’occasione migliore. In ogni individualità spirituale la volontà di percorrere il proprio cammino è irremovibile, non muta; altrimenti verrebbe messo in forse il senso stesso della vita. Non potendo affrontare una certa malattia, lo spirito dovrà cercare un’esperienza sostitutiva, la più adatta possibile.

Ma se questo sostituto non c’è, se l’io normale non lo cerca, che cosa avviene? Avviene che quest’uomo sentirà nell’anima un senso di vuoto. E se non sarà abbastanza evo- luto da rendersi conto d’avere un’anima “disoccupata”, o se addirittura vivrà col convincimento che la vita è migliore quando è più comoda, la vacuità interiore inevitabilmente gli porterà malattie psichiche che nel corso del tempo in-

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durranno a loro volta delle malattie nel corpo. Un’esistenza facile facile non è mai voluta dall’essere vero di ciascu- no di noi. E, a scanso di moraleggiamenti, tutti possiamo verificare che una vita che rende sempre più gradevoli le condizioni esterne – secondo le comuni idee del ma- terialismo –, nel contempo influenza l’anima in maniera opposta. L’anima si sentirà insoddisfatta perché le viene tolto ogni sprone a lavorare su se stessa, a trasformarsi e progredire. Sentirà la mancanza di tutte quelle conquiste interiori che si possono fare unicamente quando la vita è tutt’altro che esteriormente comoda.

L’importanza del “processo” di guarigione nei Vangeli

In una cultura che bene o male vuol ancora chiamarsi cri- stiana, può giovare gettare uno sguardo ai testi sacri del cri- stianesimo, a proposito di quanto stiamo dicendo. Come affronta il Cristo la realtà della malattia e della terapia? In tutte le lingue egli viene chiamato il grande Risanatore, il Guaritore: il Cristo è il Grande Terapeuta dell’umanità – così si afferma da duemila anni –, e ogni azione terapeutica trova il suo senso in riferimento a questo evento curativo complessivo dell’umanità.

La prima cosa sconcertante che risulta da una lettu- ra spassionata dei Vangeli è proprio il fatto che il Cristo respinge ogni tentativo di attribuire a sé il ruolo decisivo nelle guarigioni che vengono descritte. Nell’operare del

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Cristo, che guarisce l’umanità in quanto evoca tutte le for- ze risananti ingenite all’essere umano, non è previsto che le guarigioni avvengano per pura opera sua. Altri, contempo- ranei del Cristo, per esempio Apollonio di Tiana, hanno compiuto opere taumaturgiche e terapeutiche ben più spettacolari delle sue.

Al Cristo non interessa la guarigione avvenuta, ma il processo di trasformazione interiore che si attua nell’uomo grazie all’interazione con la realtà della malattia. Dopo ogni guarigione, il Cristo dice: “La tua fede ti ha salvato”, la tua πιστις2 (pìstis) è l’elemento terapeutico. Ed era dentro di te, non fuori. Ciò che ti rende sano è la forza tua di andare avanti quando ti cimenti con tutte le difficoltà che bussano alla tua porta.

Al paralitico che da trentotto anni giaceva presso la pi- scina di Betesda (Gv 5) il Cristo chiede: “Vuoi diventare sano?”. Sembrerebbe una domanda retorica, una domanda inutile! Invece la domanda del Cristo è quanto mai signifi- cativa: “Ti sei reso cosciente della volontà che c’è nel tuo vero Io di mettere in moto una trasformazione interiore grazie a questa malattia? Ti è chiaro cosa tu vuoi divenire proprio nel lottare contro questa malattia?”.

Prendiamo ancora, tra i molti altri, l’esempio dei die- ci lebbrosi (Lc 17). Tutti e dieci vengono “curati” dal

2 Il significato della parola “fede” in greco πιστις non indica un atteg- giamento interiore passivo ed esclusivamente ricettivo, ma si riferisce alla saldezza interiore attiva di un essere umano sempre più capace di fondarsi su se stesso, e di assumere la piena responsabilità morale delle proprie azioni.

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lato del corpo fisico ma uno solo, uno straniero, ritorna a ringraziare. Il libero processo interiore in grado di com- prendere che il risanamento del corpo è dovuto alla forza incipiente dell’Io che il Cristo vuole ridestare in ogni es- sere umano, avviene in uno solo. E a quest’uno soltanto il Cristo dice: “La tua fede ti ha salvato”, ti ha reso sano nell’anima; uno solo, parallelamente all’evento corporeo, comincia a rendersi conto che ogni cammino terapeutico è un cammino di crescita interiore dovuta alla forza cristica dell’Io, che va perciò ringraziata.

Se anche agli altri nove è stata offerta, grazie al fat- to corporeo, la possibilità di questo cammino interiore, ma i passi non sono stati compiuti, che cosa consegue? Consegue che gli altri nove dovranno ricominciare la ma- lattia da capo, perché il loro spirito l’aveva cercata proprio per compiere il cammino interiore che soltanto il decimo ha percorso. Finché l’anima e lo spirito non si trasfor- mano, eliminare una malattia a livello fisico non serve a nulla.

Il Cristo cura unicamente trattando l’essere umano da Io a Io, da spirito a spirito, gli interessa renderlo consape- vole dei motivi positivi per cui si è scelto una data malattia. Perciò non cura tutti, senza distinzione, ma soltanto spe- cifiche persone secondo un criterio di scelta. Egli è in gra- do di vedere quali esseri umani, grazie alla lotta contro la malattia, conseguono anche una trasformazione interiore. Questo processo positivo costituisce il criterio di legittimi- tà della guarigione corporea.

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La forza terapeutica dell’amore

Un’affermazione che ricorre in varie culture e religioni è che terapeutico in senso vero è solo l’amore, che soltanto le forze d’amore sono in grado di rendere sano l’essere umano. Cosa vuol dire, allora amare una persona malata? Vuol dire imparare ad amare la sua malattia. L’intento di eliminare al più presto la malattia non è amore, perché si oppone alla volontà dell’altro che l’ha fatta sorgere per lottare con essa.

Se voglio amare il malato devo sforzarmi di amare la sua malattia così come il suo spirito la ama. Devo cogliere il significato positivo del comparire della malattia, non del suo scomparire. In altre parole, un terapeuta diventa te- rapeuta nel momento in cui ha la forza morale interiore di volere la malattia come la vuole il paziente: come occasione di crescita interiore.

Dobbiamo allora volere che la malattia permanga o che termini? Né l’uno né l’altro. Volere che una malattia resti è non volere nulla, perché il volere si riferirebbe solo al corporeo e interiormente non si procederebbe. D’altro lato, volere semplicemente che sparisca significa, come già accennato, volere l’opposto di ciò che lo spirito del malato si propone. Tra questi due estremi c’è la decisione di volere la lotta contro la malattia, il divenire interiore di cui la malattia offre l’occasione.

Cogliere la positività del lottare contro la malattia signi- fica vincere quell’atteggiamento fondamentale dell’uomo moderno che è l’insofferenza. L’uomo odierno soffre in-

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fatti il doppio di quanto sarebbe sufficiente: soffre per- ché non c’è vita senza sofferenza, e raddoppia perché non vuol soffrire, perché rifiuta ogni sofferenza in base alla sua insofferenza. Il dogma in fondo disumano dell’edonismo ad oltranza ha decretato che una vita senza sofferenza è una vita felice. Ha identificato la sofferenza con l’infelici- tà. Francesco d’Assisi era invece ancora in grado di essere felice proprio grazie alla sofferenza e diceva: “Tanto è il bene che mi aspetto che ogni pena mi è diletto”.

Quando l’uomo soffre di soffrire, si ribella contro la sofferenza diventando insofferente e impaziente, perché non sa più quanto egli deve alla sofferenza. La grande te- rapia dell’umanità attuale può risiedere allora soltanto nella forza morale di cogliere la positività di ogni tipo di soffe- renza. Ciò vale sia per il paziente, sia per il terapeuta. Il senso vero di ogni malattia è la sua positività per l’evolu- zione interiore del malato; essa va colta dapprima conosci- tivamente per poterla poi realizzare volitivamente.

La negatività di una malattia non risiede mai nel fatto che ci sia, ma nell’incapacità dell’uomo di farne il meglio, il che avviene quando la si considera un incomprensibile e nocivo intralcio alla vita. Le forze dell’amore, in quanto forze terapeutiche, consentono all’amico, al famigliare o al terapeuta di una persona malata, di amare e confermare la scelta del suo spirito che ha fatto sorgere proprio quella specifica malattia. Tali pensieri generano forze terapeutiche di gran lunga più efficaci che non qualsiasi medicina, però vanno realmente pensati, vanno vissuti, vanno quotidiana- mente coltivati. Le forze di guarigione sono sempre forze

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di positività e scaturiscono dai pensieri. Nessuno che non ami con la mente può amare col cuore.

Il coraggio di guarire

Come si concilia la terapia o l’aiuto offerto dalle persone care con la libertà di chi attraversa una malattia? Aiutando l’altro ledo forse la sua libertà? Se questa malattia non fosse destinata a venire superata, se questa individualità si fosse ripromessa di morire grazie alla malattia, è lecito a me, in quanto medico, eliminare questa possibilità? Questa domanda è il risultato di un errore di pensiero perché met- te al centro un ipotetico esito della terapia. In quanto te- rapeuta o amico di chi soffre non mi riguarda se questo essere umano in ultima analisi guarirà o non guarirà; ciò fa parte della sua libertà e del suo destino. Il mio compito è far di tutto per aiutarlo, durante il decorso della malattia, a far sprigionare da sé il massimo di forze interiori. Ciò può avvenire unicamente se il malato fa tutto quel che gli è realmente possibile per vincere la malattia e per ristabilire la salute. Se poi, una volta compiuta questa lotta, il suo Io si sia proposto di morire o non morire, questo riguarda soltanto lui.

La malattia è voluta sempre per poter nel modo miglio- re lottare contro di essa in vista delle forze che solo l’espe- rienza specifica di una certa prova è in grado di generare. L’aiuto altrui, in quanto accompagna e incoraggia la lotta,

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la trasformazione interiore che avviene di giorno in giorno proprio grazie alla malattia, non si pone mai contro la vo- lontà libera – contro il karma – dell’Io superiore dell’altro. Anzi, ogni essere umano che tralasci di dare questo aiuto viene meno al suo compito di fratello e se è un terapeuta, in quanto karmicamente congiunto con un’individualità che viene proprio da lui per essere aiutata, doppiamente viene meno al suo compito: in quanto essere umano e in quanto terapeuta.

Questa legittimità assoluta dell’aiuto a lottare contro ogni tipo di malattia fa sorgere in coloro che sono vicini al malato la volontà terapeutica vera e propria, che è una delle espressioni più belle e profonde dell’amore. Un terapeuta che non voglia l’evoluzione in positivo del suo paziente non potrà avere su di lui un influsso risanante. Il coraggio curativo è una forza morale che sorge quando il terapeuta o l’amico giungono a volere con la massima intensità, insie- me con lo spirito del malato e non meno fortemente di lui, il cammino interiore che è reso possibile unicamente grazie alla lotta contro questa specifica malattia.

Ma vediamo ora il processo terapeutico anche dall’al- tro lato: quand’è che una malattia si prolunga oltre il ne- cessario? Quando noi ci ribelliamo, quando noi non l’ac- cettiamo. Allora nasce una sorta di schizofrenia, una vera contraddizione interiore tra l’Io superiore e l’io inferiore. L’opposizione dell’io normale che non vuole la malattia e perciò rifiuta la lotta, costringe l’Io superiore a tenerlo in essa ancora più a lungo nella speranza che, prima o poi, la coscienza ordinaria comprenda che lo scopo tutto po-

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sitivo della malattia è l’evoluzione interiore che essa rende possibile.

Meno una malattia è coscientemente accolta e più lunga dovrà essere, perché l’uomo omette di farne ciò che si è proposto nel suo Io superiore. Più invece egli si adopera a comprenderne il lato positivo e a realizzare l’evoluzione che ne è connessa, più si creano i presupposti per non farla durare più del necessario. In altre parole, una malattia dura per tutto il tempo che viene rifiutata e cessa nel momento che ci aiuta a crescere.

Le malattie in relazione all’uomo completo

Qual è il significato delle malattie cosiddette croniche, rite- nute praticamente inguaribili? Essendo la malattia cronica di durata massima, dobbiamo considerarla in rapporto con l’elemento di massima costanza nell’essere umano, cioè con lo spirito, con l’Io. In ogni malattia cronica si espri- me un aspetto dell’Io; di fronte ad essa perciò veniamo indotti in senso massimo a lavorare sullo spirito. È questo il motivo per cui una malattia cronica non si può superare dall’oggi al domani. Nella misura in cui, però, un essere umano lavora sull’Io superando i tratti negativi che hanno reso necessaria questa sofferenza cronica, la malattia può essere risolta, anche nell’arco di una stessa vita.

Rudolf Steiner indica nella sua scienza dello spirito al- cune leggi ben precise sui rapporti tra le varie malattie e gli

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elementi costitutivi dell’essere umano, nonché sul periodo di lunga, media o corta scadenza di una terapia. Egli distin- gue cinque tipi fondamentali di malattie. Ne richiamo qui solo alcuni aspetti essenziali:

1. Le malattie croniche sono, come or ora accennato, in diretto rapporto con l’Io, e di conseguenza con l’essere del sangue. Esse sono ereditabili (grazie al sangue). Per una terapia, nella misura in cui sia possibile, è di massima importanza l’intero ambiente umano e naturale in quanto abitacolo karmico dell’Io. Vanno considerate, dunque, sia le relazioni umane sia gli aspetti di natura, in particola- re quelli climatico-geografici. Inoltre è basilare proprio in questo campo ogni vera terapia di tipo psichico, in partico- lare quando riesce a svolgersi tramite le forze della gioia.

2. Le malattie acute provengono da irregolarità del “corpo astrale” – cioè dall’anima vera e propria – e si esprimono in scompensi del sistema nervoso. Per una terapia è di fon- damentale importanza la dieta, l’attenzione a tutto ciò che l’essere umano ingerisce e assimila in base alla nutrizione.

3. Le malattie in parte croniche e in parte acute sono in di- retto rapporto col funzionamento del sistema delle forze vitali – chiamato “corpo eterico” –, il cui correlato fisico è l’intero sistema ghiandolare. Per la terapia vanno qui usati farmaci specifici presi dal mondo vegetale e minerale.

4. Le malattie infettive sorgono in base a disordini nello svolgersi del destino (karma) i quali si ripercuotono sul corpo fisico nel suo rapporto col mondo materiale. Qui ci vuole una terapia di tipo “karmico”, volta in particolare ad armonizzare o cambiare le cause esterne.

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5. Le malattie karmiche vere e proprie sono quelle le cui cause provengono dalle vite precedenti, e sulle quali non si può in alcun modo influire dal di fuori. Queste malattie corrispondono a mete specifiche che l’Io si propone di conseguire ancora prima di nascere. Nel corso dell’intera evoluzione, di vita in vita, l’Io distrugge una dopo l’altra tutte le componenti del corpo fisico con l’intento di ri- costruirle grazie alle proprie forze conoscitive e volitive, libere e individuali. Infatti solo il lavoro di ricostruzione di tutto il corporeo, a partire dalle forze della libertà indi- viduale, conferisce all’Io facoltà e capacità del tutto indi- vidualizzate.

Da questi brevi accenni, che si possono dapprima con- siderare come ipotesi di lavoro, risulta che la volontà po- sitiva e ben precisa che si esprime nel far sorgere una data malattia mira a tutte quelle specifiche e multiformi attività animiche e spirituali che vengono compiute nel corso della guarigione. Una malattia polmonare (per esempio l’asma) è una distruzione – pur parziale – delle forze specifiche plasmatrici dei polmoni. Queste forze rappresentano un complessissimo mondo: in senso reale è partecipe tutto il macrocosmo al formarsi e al sano funzionare dei polmoni. Grazie alla malattia l’Io si propone di ricompiere lui stes- so – con libera partecipazione conoscitiva e volitiva che sorge proprio grazie alla sofferenza per la privazione di certe specifiche forze di salute – tutti quegli infiniti atti che ancora prima della nascita egli aveva compiuto in compa- gnia degli Esseri spirituali, e in piena dipendenza da loro, nel compaginare l’archetipo sovrasensibile dell’organo in

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questione, in tutto il suo contesto reale di forze.
Ogni guarigione è allora un’imitazione umana – perciò più libera e individuale, e di conseguenza moralmente più rilevante per l’uomo – degli atti di plasmazione divina che hanno creato i vari organi nonché l’organismo intero. La guarigione, riferendoci a quanto abbiamo detto all’inizio in relazione al subconscio, è il modo veramente umano e diretto di acquisire a poco a poco cognizione di quanto è connesso con la sfera della natura, di portare a coscienza

il subconscio.
Una salute riconquistata vincendo la malattia è più

umana di una salute divinamente architettata una volta per tutte, semplicemente regalata e passivamente accolta. Le conquiste della libertà portano così a compimento l’opera della cosidetta grazia divina. Il senso della grazia divina è la libertà. Una grazia che non volesse la libertà umana sarebbe per l’uomo una deplorevole disgrazia.

Perché sono nato così? Chi mi ha fatto come sono?

Una persona ha problemi animici di tipo vario e, grazie a un certo tipo di anamnesi, essi si palesano presto come effetti di cause che vanno cercate, poniamo, nella primissi- ma infanzia. In base a questa diagnosi la psicoanalisi mette in moto una terapia di tipo personale. Il terapeuta intende entrare in rapporto con l’inconscio specifico del paziente per portarlo a coscienza, eliminandone così la manifesta-

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zione patologica che consiste essenzialmente nell’ignorare le cause remote dei fenomeni animici attuali.

A questo punto si pone la necessità di approfondire il concetto stesso di causa. Il fatto che l’uomo sappia distin- guere col suo spirito tra causa ed effetto, sta a dire che egli non può essere solo effetto: se così fosse, non potrebbe sorgere in lui il concetto di causa. Ora, il fatto che le cause prime e determinanti di una patologia psichica vengano viste in fatti accaduti nell’infanzia, non cambia nulla sul- l’affermazione implicita che l’uomo è in tutto e per tutto effetto. Sia che si veda la causa delle sue condizioni animico- corporee in un creatore, sia che le si veda nella corrente ereditaria, sia che le si imputi a quanto accaduto nell’in- fanzia, resta il fatto fondamentale – così fondamentale che nemmeno ci si rende conto di metterlo alla base di tutto come assioma indiscusso – che l’essere umano così viene visto in tutta la sua realtà come effetto di qualcosa che non è lui stesso a causare.

Prendere coscienza di questo fatto vuol dire al contem- po conoscere l’origine più profonda di ogni atteggiamento sia depressivo, sia aggressivo. Vivendosi, pur inconscia- mente, come puro effetto, l’essere umano o si ripiega su di sé nella depressione o si ribella diventando violento. E questo perché? Il suo motivo è che non può accettare l’af- fermazione che lo condanna ad essere un puro effetto, per il semplice fatto che in realtà non lo è. È allora compito di un’osservazione più attenta dei fenomeni animici il chie- dersi se sia oggettivo il ricercare le cause prime retroceden- do nel tempo fino alla primissima infanzia. La domanda

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che a questo punto potrebbe sorgere è: perché ci si ferma lì? Perché non si va ancora oltre, ai tempi anteriori al con- cepimento e alla nascita?

Di fronte a questa domanda l’uomo occidentale resta per lo più interdetto. Da molto tempo infatti l’Occidente pensa che l’essere umano non esista prima della nascita. La religione gli ha detto che Dio crea l’anima in concomitanza col formarsi del corpo, e la scienza – che ha lasciato Dio da parte – ha mutuato dalla teologia la stessa affermazione di fondo: la realtà animica, supposto che ci sia, non esiste prima che vi sia il corpo, sorge parallelamente ad esso ( in base al noto “parallelismo psico-fisico”).

È nostro compito a questo punto non dare per scontata proprio questa affermazione implicita ma fondamentale perchè gravida di conseguenze.

Se ci rivolgiamo per esempio a Platone, per lui è scon- tato l’opposto, e cioè che l’uomo preesiste al sorgere del suo corpo. Secondo lui, conoscere vuol dire ricordarsi di ciò che già si sapeva prima di nascere. Fu il suo discepolo, Aristotele, a non parlare più della preesistenza: egli fu il primo a considerare l’anima la forma del corpo, e che può quindi esistere unicamente in rapporto col corpo. Il cristia- nesimo ha poi recepito da Aristotele quest’affermazione fondamentale, senza metterla in questione.

Chi ha ragione, allora, Platone o Aristotele? Paradossalmente hanno ragione entrambi. Platone parla di preesistenza, ma si comprende che non ha un’esperienza personale e diretta. È un’affermazione che egli prende da una lunga tradizione, soprattutto misterica. Aristotele de-

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cide allora di parlare unicamente di quella realtà animica della quale ha esperienza diretta, cioè dell’autocosciente vero e proprio. Questo tipo di realtà animica è possibile solo grazie al corpo. Questo tipo di autocoscienza psichica sorge in realtà con la corporeità e non né prima della nascita né dopo la morte.

E qui si prospetta quella che io chiamerei la seconda grande missione della psicologia moderna, se vuole apri- re le porte verso un futuro davvero fecondo per l’uomo. La sua prima grande missione, l’abbiamo già accennato, è quella di riconquistare lo spirito in quanto realtà del tutto diversa da quella psichica, proprio a partire da una giusta lettura dei fenomeni dell’anima. La seconda grande mis- sione sarà quella di varcare, nella sua ricerca delle cause prime, la soglia dell’infanzia e della nascita per riscoprire la preesistenza dell’essere umano, in quanto spirito che esiste anche indipendentemente dal corpo.

Questo coraggio conoscitivo terapeutico genererà la forza morale di andare poi fino in fondo e di porre quel- la domanda cruciale che l’occidente da duemila anni ha represso, la domanda che chiede: l’uomo vive davvero una volta sola? Oppure s’incarna ripetutamente, come per Platone era ovvio che fosse?

Il primo passo da compiere in questa direzione è quel- lo di dirsi che la scienza moderna, come ha direttamente mutuato dalla teologia l’assioma della non preesistenza, così ha fatto riguardo all’affermazione che si vive una sola volta, senza nemmeno tematizzarla o porla in questione. L’urgente compito, soprattutto della psicologia attuale, è

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quello di mettere in questione questo dogma perché sono troppi i quesiti che trovano una soddisfacente risposta solo nella prospettiva della reincarnazione. Gli esseri umani vengono sempre più costretti da un lato alla depressione rassegnata, in qualche caso fino alla disperazione, e dall’al- tro alla violenza distruttrice, se non riescono a collocare la totalità della vita, con tutti i suoi enigmi, in un contesto più vasto di ripetute vite che li possa sciogliere.

Se l’uomo conosce e riconosce dentro di sé unicamente quella realtà psichica che sorge col corpo e dal corpo di- pende in tutto e per tutto, egli deve dirsi, se è coerente, di essere in tutto e per tutto un effetto delle leggi e delle forze della materia. Proprio questa conseguenza logica e onesta gli toglie ogni illusione di libertà, cioè di indipendenza crea- trice nei confronti del mondo fisico.

Se questo pensiero fosse conforme alla realtà l’uomo dovrebbe gioirne sapendo di vivere nella verità oggettiva. Invece, proprio in base a questo convincimento che è il cardine del materialismo moderno, l’umanità vive le con- seguenze devastanti di un dogma falso, di un gravissimo errore di pensiero.

L’uomo moderno dovrà prestare attenzione ad un’af- fermazione di base della scienza dello spirituale che dice: la realtà dell’anima è tutto ciò che l’essere umano vive nella sua interiorità grazie all’interazione col corpo. L’animico vero e proprio è dunque per natura dipendente dal corpo e non può essere causante perché è sempre al contempo anche “causato”, cioè determinato e condizionato dal cor- po. La realtà dell’anima, il vissuto animico, sorge in realtà

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col sorgere del corpo e non può esistere prima del conce- pimento o della nascita né dopo la morte.

Ma l’essere umano non è solo anima. Egli ha un corpo, ha un’anima, ma è uno spirito. L’anima è sia causa sia ef- fetto nei confronti del corpo e non può essere, perciò, causa prima o pura; lo spirito è invece causa prima, causa pura perché non è a sua volta effetto. È lo spirito a decidere della realtà sia dell’anima sia del corpo nella loro reciproca dipendenza. Ogni spirito umano, in quanto Io del tutto unico e individuale, è la causa creante e libera sia dell’anima che del corpo, perché è indipendente da entrambi. Esiste, in quanto spirito, sia prima della nascita sia dopo la morte del corpo.

Questo pensiero, pensato fino in fondo, porta alle ri- petute – benché non infinite – vite terrene di ogni spiri- to umano, come legge fondamentale dell’evoluzione sulla terra. Più un uomo fa l’autoesperienza reale di essere uno spirito libero e creatore, più è capace di prendere in mano la propria vita, il proprio destino e assumerne la piena re- sponsabilità morale.

La depressione e la violenza sempre più diffuse nel- l’umanità moderna rappresentano la sana reazione dell’uo- mo che non vuole e non può darwinisticamente essere ri- dotto al livello animale. “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtude e conoscenza” leggiamo in Dante. L’essere umano non è, come l’animale, un puro essere di natura, in tutto e per tutto determinato, bensì ha in sé la ca- pacità di esercitare la sua forza libera e creatrice, di viversi sempre più pienamente come spirito.

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Una cultura che ritrovi il coraggio di interrogarsi sulla preesistenza e sulle ripetute vite terrene sarà meno dog- matica e miope di una che da sempre ignora e considera tabù questi quesiti. Tematizzare sia l’uno sia l’altro quesito non equivale però a volare a conclusioni opposte, altrettanto dogmatiche. Significa avere il coraggio di portare con sé queste domande, vivendone tutte le vaste implicazioni nel contesto della vita quotidiana. Solo una disamina fenome- nologica, la più esauriente possibile, dei risvolti esistenziali di queste nuove “ipotesi di lavoro”, potrà portare all’intimo convincimento di non essere ancora una volta di fronte a un dogma, ma al risultato di un lungo e responsabile cammino conoscitivo, condotto con coscienza pienamente desta.

Nelle considerazioni che seguono, certi fenomeni ver- ranno considerati dal punto di vista della reincarnazione e chi legge non deve dare per scontata quest’affermazione ma considerarla dapprima come un’ipotesi di lavoro, per vedere che cosa ne segue per la vita. La via al convinci- mento interiore è del tutto individuale e nessuno può in realtà “convincere” di alcunché un altro dal di fuori. Ogni convincimento vero nasce solo da un lavoro di pensiero proprio, di natura del tutto libera e individuale.

Segono qui solo alcuni cenni sulla differenza tra il con- siderare l’uomo come costituito solo di anima e corpo – che nella loro dipendenza reciproca possono vedersi come un piccolo mondo a sé stante –, oppure come per di più un essere spirituale.

Accompagnamo con la pena nel cuore le malattie e le

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sofferenze dei bambini, quelle che, di fronte al pensare comune, appaiono le più ingiuste e le più difficili da ac- cettare. Però, nella prospettiva della reincarnazione, tutto ciò acquista un significato nuovo: l’importante diventa ciò che l’Io vero, lo spirito eterno del cosiddetto “bambi- no” – che è ben adulto perché ha millenni di evoluzione alle spalle – sta vivendo e conquistando grazie alla malattia e alla sofferenza dovuta proprio al vivere nel corpo, senza nemmeno il bisogno della partecipazione a livello della co- scienza normale che il “bambino” ancora non ha.

Lo stesso vale anche per tutte le sofferenze che vivono i cosiddetti handicappati mentali, il cui significato sfugge alla coscienza ordinaria – che in essi non c’è – ma può es- sere solo sovracosciente, voluto e vissuto dalla coscienza dell’Io superiore.

L’uomo è un essere spirituale in reale comunione con tutti gli esseri del cosmo, mai separato o a sé stante. Per cu- rare certe malattie dell’anima spesso accade che una perso- na venga mandata lontano dal suo ambiente in una casa di cura. Ma l’anima si ammala proprio perché nei rapporti che ha con le persone con le quali vive c’è qualcosa che non va, e che andrebbe messo in ordine. E quale cura gli viene data? Quella di allontanarla e così estraniarla ancora di più dalla realtà che il suo spirito vorrebbe meglio conoscere, e alla quale vorrebbe lavorare per migliorarla. Invece di aiutarlo a lavorare sulla sua situazione – superando così in maniera non illusoria la “malattia” – lo strappiamo dal suo contesto di vita – che è il rapporto del suo spirito con altri spiriti umani – sottraendogli ogni possibilità di lavorare a

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migliorarla. Questo modo di procedere è il corrispettivo animico del volere lo “sparire” della malattia al livello cor- poreo, anziché volere la giusta interazione con essa.

In tempi di materialismo la psicologia stessa viene spes- so indotta a considerare i fatti animici come racchiusi in una specie di scatola ermetica che ognuno porta con sé, e che rimane immutata anche se ci spostiamo di trecento chilometri dal nostro ambiente quotidiano. Ma i rapporti karmici, le forze di simpatia e antipatia, gli influssi reciproci passati e quelli volti al futuro, tutto ciò che lega questa per- sona malata con le altre individualità karmicamente con- giunte con lei, sono forze reali, sono realtà spirituali og- gettive! In che cosa consiste allora il citato intervento tera- peutico che allontana il malato dalla sua realtà karmica e lo mette in una casa di cura? Consiste nel considerarlo come una pura realtà psicosomatica, come lo è anche l’animale, isolato, a sé stante, senza karma. È come se, per “curare” una pianticella danneggiata che non riesce a crescere bene, la sradicassimo dalla terra per farla crescere nell’aria.

Come può avvenire una guarigione quando io tolgo al cosiddetto “malato” la possibilità di mettere ordine nei suoi rapporti karmici, portandolo via proprio da quelli? Tutto ciò che è spirituale è per l’uomo d’oggi irreale. Anche nel caso di un cosiddetto malato di mente si escogita spesso una presunta cura individuale per una realtà che è eminen- temente sociale. Come nella terapia psicoanalitica spesso s’incentra l’attenzione sui fatti animici e ci si irretisce in essi ignorando la realtà oggettiva e universale dello spiri- to, così nell’isolamento in case di cura si strappa non

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meno spesso l’essere umano dal suo “ambiente naturale e spirituale”, illudendosi di avere ugualmente di fronte l’in- dividuo completo per il fatto che ha portato con sé, con la valigia, anche il suo corpo e la sua anima.*

*La conversazione che si è svolta dopo questa conferenza è a pag. 127.

L’intero testo è consultabile sul sito www.liberaconoscenza.it

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II CAPITOLO

 

II. AGGRESSIVITÀ E DEPRESSIONE: L’ALTALENA DELLA VITA

 

Il significato tutto positivo della malattia

Nessun uomo, nel suo essere più profondo, vuole la stasi interiore, la comodità o la passività. Anche la malattia trova il suo significato positivo della lotta contro di essa.

Gli uomini a volte si chiedono: “Ma che cosa ho fatto per meritarmela?”. È una domanda con cui ci si ribella alla “malasorte”, ma la parola “meritare” è molto bella, perché davvero una malattia si può ricevere soltanto se la si è meritata. Uno dei motivi del suo insorgere, infatti, deriva dalla necessità di pareggiare le unilateralità del nostro passato, recuperando ciò che è stato omesso o facendo meglio quel che prima è stato fatto poco bene.

Va allora approfondito il concetto stesso di omissione. Essa è l’occasione offerta dalla vita ma da un lato, non da noi afferrata. É la cosa più normale di questo mondo, perché una vita senza unilateralità, cioè senza realtà tralasciate magari per dare la precedenza ad altre, non sarebbe possibile. L’evoluzione nel tempo ci offre nel suo insieme la possibilità di conseguire tutte le dimensioni dell’umano, ma una dopo l’altra. Se le potessimo conseguire tutte insieme non ci sarebbe lo scorrere del tempo.

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In questo modo avremmo già l’umano e non ci sarebbe possibile conquistarlo liberamente di pensiero in pensiero, di azione in azione. Qui è la differenza più importante tra lo scorrere del tempo e il durare nell’eternità, tra la dimensione dell’umano e quella del divino. La legge fondamentale del vivere nel tempo è il succedersi delle cose una dopo l’altra per consentire l’esercizio della libertà di conquista e di scelta; la legge fondamentale del divino è la compresen- za, nella durata, di tutte le dimensioni dell’essere.

Nessun uomo può essere perfetto nel senso di “finito”. La sua perfezione specifica consiste proprio nell’incompletezza strutturale che consente l’inarrestabile dinamismo del divenire. Si tratta solo di vedere quali aspetti dell’umano ognuno abbia privilegiato nel passato e quali si proponga di conseguire o recuperare al presente, concentrandosi su di essi e riservandone innumerevoli altri per il futuro.

Supponiamo che uno voglia conseguire la virtù del coraggio. Un coraggioso deve essere unilaterale, perché se volesse essere al contempo un mansueto, un mite, non sarebbe né l’uno né l’altro. L’acquisizione del coraggio porta con sé, come risultato, un anelito verso l’altro lato, quello della mitezza, appunto. Sorgerà allora in una tale individualità il desiderio karmico di compensare questa unilateralità col suo lato opposto. Il concetto di recupero acquisisce in questo modo un significato tutto positivo. Le cose che in un dato tempo si omettono perché si dà la precedenza ad altre vengono più tardi “pareggiate”, nel senso che ora tocca a loro venir messe in primo piano.

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La reincarnazione significa proprio questo: un’esistenza trascorsa come maschio è una unilateralità su tutta la linea, perché non permette, per tutta una vita, di vivere con animo femminile, con qualità di pensiero femminili, la natura e la relazioni fra gli esseri umani… Il sesso non si può “compensare” nell’arco di un’esistenza. Il maschile e il femminile sono configurazioni totalizzanti, e l’alternanza è possibile soltanto da una vita all’altra.

Tutti gli eventi della vita, anche quelli felici, sono sempre “pareggi” di inevitabili unilateralità del passato. E dunque anche la malattia. Perciò la domanda da porre non è: “Che cosa ho fatto di male perché adesso mi debba capitare questa malattia?”, ma: “Quale dimensione dell’umano mi rende possibile aggiungere a ciò che ho già acquisito nel passato?”.

Segue da tutto ciò che il vero significato di ogni evento è la prospettiva che esso apre verso il futuro. Un’individualità può scegliere una malattia senz’altro anche in base a un’omissione del passato, ma l’importante è sempre ciò che essa si ripromette di positivo per l’avvenire. L’Io spiri- tuale ha sempre in vista la sua missione da svolgere verso il futuro.

Supponiamo che uno spirito umano abbia da compiere una missione importante per tutta l’umanità: essa richiederà forze specifiche di amore, di sacrificio, di attività impegnativa a servizio degli altri. In vista di questo progetto, sarà forse necessario passare, ad esempio, attraverso una lesione della corporeità che durerà per tutta una vita, e la cui “causa”, cioè il motivo vero, è dunque tutto nell’avvenire.

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L’Io superiore di un essere umano che noi chiamiamo handicappato può aver deciso, per questa vita, di non afferrare la corporeità nel modo che noi consideriamo normale – e che, in fondo, è intriso di egoismo – ma di non avvalersene del tutto. Oltre al sacrificio che fa crescere questa individualità grazie alla sua “rinuncia”, vengono indotte anche le persone a lei congiunte a suscitare dentro di sé forze di dedizione e di amore non comuni, che potranno pienamente esplicare in futuro.

Senza la prospettiva della reincarnazione sono tanti i fenomeni che non si possono capire, che non hanno senso. Tutte le nostre riflessioni ci riportano al pensiero che, sia per il terapeuta sia per il paziente, l’importante è non opporsi alla malattia, ma volerla e amarla nel suo significato positivo di crescita in vista dell’avvenire.

L’altalena tra aggressività e depressione

Aggressività e depressività costituiscono una polarità di forze che interagiscono fra loro, e che sono entrambe necessarie per l’evoluzione. Sono anch’esse due unilateralità, il loro reciproco pareggio è in atto in ognuno, sempre e ovunque, e costituisce il dinamismo stesso della vita.

Un uomo del tutto senza aggressività o senza depressione cesserebbe di essere uomo. Si può dire che la differenza tra l’uomo e l’animale è che l’animale non è in grado né di essere aggressivo in senso vero e proprio, né di deprimersi.

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Se diciamo che il leone è aggressivo in quanto agguanta la preda e la dilania, usiamo delle metafore antropomorfiche, perché l’istinto di natura non è deliberata aggressività: si impone per natura, appunto. Si può essere veramente aggressivi soltanto avendone almeno un barlume di coscienza ed essendo capaci di domare l’aggressività.

L’aggressività sorge dove c’è un’esuberanza, un troppo di forze; mentre il troppo poco caratterizza la depressione. Questa possibilità del troppo e del troppo poco fa parte della libertà. L’aggressività e la depressione sono in questo modo le due forze portanti dell’evoluzione umana.

L’umanità si separò fin dai primordi dal grembo divino e questo emanciparsi per diventare autonomi esprime la prima legge fondamentale del divenire. I grandi miti (di Osiride, di Dioniso) parlano di un’umanità inizialmente unitaria e che poi si è frantumata. Ciascuno di noi è un frantume, come un atomo in sé conchiuso, dell’umanità originaria. Se ciò non fosse avvenuto, se ciascuno di noi non avesse conseguito una certa autonomia nel suo io, non ci sarebbe libertà, l’esperienza di essere un io autonomo.

Il processo di separazione dal grembo originario, dalla matrice cosmica, comporta di necessità l’esperienza dell’aggressione, esprime un atteggiamento originario di repulsa. In piccolo, nella ricapitolazione dell’evoluzione che si fa in ogni vita, l’adolescente, verso i tredici quattordici anni, riconferma il taglio ombelicale fisico nella dimensione psicologico-spirituale per acquistare la propria autonomia di pensiero e di azione. Conseguire una propria indipendenza

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senza aggressività non è possibile, perché si può diventare autonomi soltanto respingendo ogni gestione e conduzione dall’esterno.

L’aggressività è allora una forza moralmente né buona né cattiva in sé, ma semplicemente necessaria. Esubera, diventa eccessiva e perciò nociva (e dunque moralmente “cattiva”), quando chi respinge ogni gestione estrinseca si vuole imporre, a sua volta, sugli altri. Ed è questo trop- po che noi chiamiamo normalmente aggressività, ma va ben riconosciuta la necessità anche di questa forza che fa aspirare sanamente all’indipendenza, senza tollerare mani- polazioni.

In questo senso, senza una sana aggressività nessuno può diventare veramente autonomo e davvero umano; si tratta di vedere, in che modo questa forza diventa negativa. Presa nel suo significato positivo, l’aggressività è la forza dell’affermazione di sé, di cui fa parte anche la giusta autodifesa. Già Aristotele, considerava il “buono” come un giusto equilibrio fra estremi, riconoscendo nella “giustizia” di Platone la virtù di ogni virtù, il giusto mezzo fra il troppo e il troppo poco.

L’altra forza fondamentale, non meno necessaria per ogni crescita, è la depressione. È il contraccolpo necessario dell’aggressività: si richiamano a vicenda così come il pendolo, oscillando da un lato, al ritorno non si ferma al centro ma va dall’altra parte. C’è un’osmosi continua di forze tra aggressività e depressione, l’una evoca l’altra. In posizione aggressiva io vivo la mia forza egoica come necessaria per la mia evoluzione, e respingo le ingerenze altrui; nella fase

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depressiva vivo la forza egoica degli altri che respingono i miei tentativi di manipolazione. Io non posso vivere senza il mio egoismo e gli altri non possono vivere senza il loro. Quando respingo gli altri per affermare la mia autonomia, essi mi vivono come aggressivo; quando sono gli altri a respingere me, essi vivono la loro aggressività e io trascorro una fase depressiva.

Se l’aggressività in quanto tale è la forza primigenia dell’autoaffermazione, cioè l’anelito all’autonomia, la depressione è nella sua realtà più profonda l’anelito alla comunione. In fondo, che cosa vuole una persona depressa? Vuole la comunione, perché proviene dall’esperienza fondamentale della solitudine. Io sento solitudine quando gli altri nella loro aggressività “non mi vogliono”, ma gli altri hanno il diritto di non volermi perché hanno essi pure il diritto alla loro aggressività, alla loro autonomia. Quando mi sento depresso sto in fondo subendo la forza di autoaffermazione dell’altro, che mi fa sentire solo. Questo accende in me il desiderio di comunione.

Autonomia di ognuno e comunione fra tutti, sono i due valori fondamentali dell’evoluzione umana. Si tratta di ristabilire sempre nuovamente il giusto equilibrio tra queste due autoesperienze; nessuno può vivere senza autonomia, nessuno può vivere nella solitudine. Di fronte a queste due forze fondamentali e alla loro molteplice interazione che genera il dinamismo vero e proprio dell’esistenza, sono possibili due atteggiamenti interiori, essi pure fondamentali.

C’è chi ritiene che sarebbe meglio se aggressività e de-

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pressione non ci fossero, che sia l’aggressività sia la depressione fossero per natura negative o nocive. In ultima analisi ciò vuol dire: sarebbe meglio se l’essere umano non fosse in evoluzione. Se vogliamo l’uomo lo dobbiamo volere in cammino: sia con la capacità di autonomia, cioè di separazione, sia con la forza di reagire contro l’aggressività altrui con la depressione, esperendo la solitudine. Per trovarsi a suo agio nella solitudine dovrebbe terminare di essere uomo. L’abisso che più sconvolge nei riguardi della depressione è la paura di non trovare più in sé le forze di reazione, cioè un anelito sufficientemente forte verso la comunione.

Vero terapeuta, vero amico è colui che nutre in sé il convincimento profondo che un tale abisso ultimo non sia possibile. L’amico del depresso si proibisce il pensiero che l’altro possa accettare la solitudine in modo definitivo e irrevocabile.

Un uomo che non voglia più uscire dalla sua depressione non esiste. Ciò per il fatto che il suo vero spirito, non è mai in realtà né solo né depresso. Depressa può essere solo la coscienza ordinaria, proprio in base al fatto che non riesce a cogliere la positività anche della sua depressione. Pensare questo pensiero è allora il compito dell’amico o del terapeuta, perché questo è ciò che pensa lo spirito stesso del depresso, e il problema sta proprio nel fatto che nel suo io normale egli non riesce più a pensarlo.

Il terapeuta gli porta incontro la forza risanatrice e risanante di questa presa di coscienza: “Il tuo Io superiore, anche se tu lo volessi, non può voler restare in un isolamento

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definitivo. Nel tuo Io vero tu desideri vincere la depressione e rituffarti nella comunione universale con rinnovate forze di amore”. Il terapeuta riceve questo pensiero dall’Io superiore dell’altro e lo porta incontro al suo io inferiore, alla sua coscienza ordinaria: e questa è la vera terapia. Al depresso viene detto: hai scelto tu stesso liberamente questa fase depressiva perché solo se c’è hai la possibilità di superarla e di acquistare così nuove forze nel tuo animo.

Un altro atteggiamento di fondo nei confronti dell’aggressività e della depressione è quello di gioire del fatto che queste forze ci siano, avendo compreso che l’arte della vita consiste nell’interazione sempre vivace tra questi due poli. La vita fa sorgere sempre nuove unilateralità per darci di risolverle in modi ogni volta diversi. Il positivo delle unilateralità non sta nel non averle, perché se non ci fossero non ci è nulla da fare, e questa sarebbe la cosa più brutta che ci possa capitare.

La positività delle forze di aggressione e di depressione consiste nella possibilità che ci danno di lavorarci sopra, soprattutto quando diventano estreme, e di correggerle con la forza opposta. Entrare nell’unilateralità non è in sé un problema: problematico è restarci dentro rifiutando il dinamismo che ci vuole per ritornare indietro. Schiller, nelle sue Lettere sull’educazione estetica del genere umano, dice che l’uomo è sommamente umano quando gioca, non quando finisce di giocare. È continuamente da vincere il pensiero sbagliato che depressione e aggressività siano in sé negative. Un essere umano che non oscillasse tra aggressività e depressione sarebbe interiormente morto, e questo non

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sarebbe di certo il meglio.
Ponendo le cose in questo modo superiamo pesanti moralismi che ci trasciniamo da secoli: le forze della depressione e dell’aggressività vengono viste come il materiale plastico più prezioso che vi sia, messo a disposizione di un geniale artista perché lo modelli in molteplici creazioni. Sorge allora una profonda gratitudine verso questa polarità primigenia di forze che ci offre il da fare quotidiano. Il bene morale è l’arte stessa della vita, l’arte di maneggia- re tutte le nostre forze di aggressività e di depressione in modo artistico.

L’aggressività nasce di fronte a un male che c’è

Una riflessione di natura un po’ più filosofica sull’aggressività e sulla depressione potrebbe prendere le mosse da un assunto fondamentale: l’essere umano diventa aggressivo di fronte a ogni male che trova, e diventa depressivo di fronte a ogni bene che non trova.

L’atteggiamento aggressivo implica sempre una qualche indignazione di fronte a qualcosa che non va bene: quando l’altro vuol manipolarmi o quando vedo un’ingiustizia o un sopruso nei confronti di altri vado in collera, divento aggressivo perché mi ribello contro qualcosa di non giusto. L’aggressività ha sempre a che fare con la presenza di un qualche male. Questo male non deve essere necessariamente oggettivo: è importante che venga vissuto

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come un male, suscitando così ira o collera – aggressività appunto.

Collegando questo pensiero a quello svolto prima scopriamo qualcosa di nuovo. Dicevamo che l’aggressività diventa negativa, cioè nociva per l’essere umano, solo nella misura in cui va oltre la giusta misura, ledendo la libertà altrui. Ora chiediamoci: quando diventano per me “di troppo”, cioè eccessivamente unilaterali e deleterie, la ribellione e l’aggressività nei confronti di ciò che mi appare come un male? Lo diventano quando io vedo il male solo fuori di me, unicamente negli altri. Allora aggredisco l’altro costringendolo a difendere giustamente la sua autonomia.

Potendo io invece combattere il male solo dentro di me, solo qui ho la possibilità di vincere la mia aggressività nei confronti del male. L’ira iniziale di aggressione rivolta all’esterno si trasforma da sé in sana depressione, nel momento in cui guardo me stesso e mi vedo anch’io del tutto imperfetto. Non così invece di fronte al male fuori di me: se vedo unicamente quello, mancandomi ogni controforza di sana depressività, divento sempre più unilateralmente aggressivo. L’espressione estrema di questa aggressività è l’omicidio, così come il suicidio è in un certo senso l’espressione estrema della depressività.

A ben riflettere, ognuno di noi dovrebbe dirsi: il male fuori di me non mi riguarda. Quel che è fuori di me è sempre e solo, per me, un dato di fatto e considerandolo come un male moraleggio inutilmente. Quel che è un male per l’altro – cioè un compito evolutivo che lui omette –, non può essere un male per me – cioè una omissione mia. Una

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situazione di vita che mi ponga a contatto, per esempio, con una persona estremamente egoista, mi autorizza a dire che è un male morale il suo egoismo? No: lei lo potrà considerare come un male morale, essendo il suo; per quanto riguarda me, il suo egoismo è un dato di fatto oggettivo non meno di un tramonto o di un temporale.

L’aggressivo in eccedenza vede allora il male fuori di sé e vuole combatterlo, sbaragliarlo; la cura per questa “esuberanza” di aggressività sta allora tutta nel vedere il male morale sempre e solo dentro di me. Allora divento “aggressivo” nei confronti di me stesso, e imparo che la lotta contro il male dentro di me rappresenta il senso positivo dell’esistenza. È una lotta quanto mai salutare, se condotta in modo giusto.

Ecco trovata la cura dell’aggressività: riconoscere e vin- cere sempre nuovamente la propria tendenza a smascherare, ad assalire e a sbaragliare il male che si trova all’esterno. Quando io voglio “smascherare” il male esterno a me sono troppo aggressivo nel pensiero, quando lo voglio “assalire” sono troppo aggressivo nel sentimento, quando lo voglio “sbaragliare” sono troppo aggressivo nelle mie forze di volontà. In tutti e tre i casi divento troppo aggressivo perché invece di cambiare me voglio cambiare l’altro, e questa stessa aggressività mi ritorna contro grazie alla sana reazione dell’altro, paralizzandomi. Questo mi aiuta a comprendere che la sede del male è dentro di me, lì il male ridiventa umano perché ci posso davvero lavorare sopra.

Nei confronti di me stesso l’aggressività si esprime allora in chiave del tutto positiva di lotta interiore, di vittoria

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su me stesso. Senza una giusta e sana misura di aggressività nei propri confronti non riuscirà mai nessuno a vincere i lati negativi del proprio egoismo. La “grinta” rivolta verso noi stessi ci fa dire: nella vita non posso forzare gli eventi, non posso costringere gli altri a cambiare. Non ha senso scagliarmi contro ciò che io giudico come male nella vita altrui, moraleggiando e pretendendo dall’altro il compito di ciò che posso fare solo io in prima persona.

Questo pungiglione volto verso se stessi è la riconquista quotidiana della calma interiore, è la capacità di accettare gli altri così come sono, sapendo che soltanto quando trasformo me stesso trasformo al contempo il mondo, e in modo sommo. Se invece voglio prima cambiare il mondo (cioè rivolgo il pungiglione verso l’esterno) senza mutare me stesso, non succede nulla. Anzi, le cose peggiorano perché il mondo esterno invece di cambiare rintuzza la mia aggressività, e ciò mi rimanda verso la depressione.

La depressione sorge di fronte a un bene che non c’è

Come l’aggressività nasce in presenza di un qualche male, la depressione è una reazione alla mancanza di un bene. La depressione nasce sempre di fronte a un vuoto. Il depresso è colui che sottolinea il negativo, che guarda ai buchi, alle lacune della vita invece di sottolineare il positivo e orien- tarsi verso la pienezza. Il depresso elenca tutte le porte che si chiudono e non vede quelle che si aprono. La grande

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cura della depressione è allora la positività, che non si può prendere dalle cose del mondo, ma si può solo generare nello sguardo che si posa sugli eventi del mondo. La positività risiede tutta nel nostro modo di vedere la vita. Il mondo è pieno sia di positività che di carenze perché in nessun posto, in nessuna persona, in nessun evento c’è tutto o nulla. Ci deprimiamo quando ci concentriamo su ciò che manca, perché ciò che c’è non ci dice più nulla.

L’amico o il terapeuta di una persona depressa deve sapere che non convincerà mai con argomenti teorici il depresso a guardare ciò che è positivo, perché il depresso proprio non lo vede. E non lo vede perché, nella fase depressiva, la sua coscienza ordinaria si rifiuta di vederlo, altrimenti non sarebbe depresso. Come si risolve, allora, il problema? Si risolve, o per lo meno si pongono le basi per una soluzione, con l’osmosi karmica dell’essere l’uno per l’altro, proprio grazie al rapporto di amicizia o di terapia.

L’amico – muovendosi nella sfera del pensiero che non lede la libertà dell’altro – pensa i pensieri positivi che il depresso non riesce a pensare da solo. E il pensiero fondamentale da pensare è che non esiste mai una situazione in cui tutte le porte siano chiuse. Forse lo è la morte? Nemmeno, perché con essa si chiudono, sì, tutte le porte dell’al di qua, ma si aprono tutte quelle dell’aldilà! Una situazione dove in assoluto tutto fosse “chiuso” sarebbe la fine del mondo. Ma la fine del mondo non è mai venuta da che mondo è mondo.

Un pensiero, in particolare, va riportato al centro della coscienza: più importante di ciò che non è possibile è ciò

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che è possibile. Cosa fa infatti il depresso? Guarda a ciò che non gli è possibile. E perché lo fa? Per inerzia, per trovare una scusa e non far nulla. È come l’intento di cambiare l’umanità: ciascuno vorrebbe volentieri migliorare l’umanità perché in fondo sa che non è possibile, e quindi ha subito la scusa per non far nulla e può dire: «Visto? ci ho provato ma non funziona, è inutile!» Se invece gli viene la voglia di cambiare se stesso, allora le cose cambiano, perché ciò è possibile! E la scusa non c’è più.

La cura della depressione è allora la decisione di concentrarsi su ciò che è possibile. Per volerlo, per realizzarlo. Questa determinazione c’è nel profondo di ogni essere umano. L’amico può rafforzare il pensiero e la volontà dell’Io vero di colui che è depresso pensando e volendo lui, fortemente, tutto ciò che è positivo in quanto realmente possibile.

In fondo si tratta, da parte di chi accompagna la persona depressa, di non desiderare lo sparire della sua depressione, perché così facendo la vedrebbe come qualcosa di negativo. Si tratta invece di conferire la prima forza necessaria, quella che fa vedere la depressione come un compito positivo, come una sfida, una occasione di crescita.

Ricompare qui riferito alla depressione ciò che abbiamo detto della malattia. Pensare che sarebbe meglio che la depressione non ci fosse è renderla ancora più necessaria. Se c’è, è bene che ci sia perché solo così è possibile la crescita interiore che si vive unicamente con la lotta contro la depressione stessa.

L’altro pensiero è che nessun essere umano vuole restare

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eternamente nella fase di depressione, perché è nel dinamismo di ogni polarità risalire verso il polo opposto, verso l’esuberanza delle forze di aggressività. Come la malattia viene voluta dall’Io vero per poter lottare contro di essa e vincerla, così la depressione viene cercata per poter lottare contro di essa e per vincerla. È grazie a ciò che vive grazie alla lotta che l’essere umano progredisce.

Si tratta allora di un continuum di forze che vanno dall’aggressività alla depressività. L’importante è non moraleggiare, non pensare che una depressione che duri mesi e mesi sia qualcosa di negativo in sé e per sé. Non è questo che importa. Importante non è quanto duri la depressione ma è il modo di viverla, cioè che cosa la persona diviene interiormente grazie alla lotta con la depressione, per quanto lunga essa sia.

Il pendolo tra aggressività e depressione nei diversi archi di tempo

Consideriamo ora la polarità esistenziale delle forze di aggressione e di depressione, sotto alcuni aspetti fondamentali relativi sia al corso intero della vita, sia all’evoluzione globalmente intesa, sia al quotidiano.

Se è vero che l’esperienza della libertà è la capacità di ricostituire equilibri sempre nuovi muovendosi artisticamente tra questi due poli dell’esistenza, qual è la cosa più importante perché ciò possa avvenire? È che sorgano

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sempre nuovi squilibri! Compito della realtà fuori di me è sempre quello di fornire disarmonie. Per fortuna! Se io mi auguro che la vita la finisca una buona volta di cambiarmi le carte in tavola scompigliandomi le cose, non ho capito nulla! Il compito degli eventi, degli altri, del mondo esterno, è proprio quello di procurare tutti i possibili sbilanciamenti dentro di me, affinché io abbia la fortuna e la gioia di poterci lavorare, nell’esercizio sovrano della mia libertà. La legge della vita è la legge del pendolo, del gioco, della creazione artistica, dell’interminabile trapasso di forze tra la posizione aggressiva e quella depressiva.

Prendiamo il corso della vita: c’è un tempo, quello della gioventù, dove prevalgono le forze dell’aggressività. Un giovane depresso sarebbe un vecchio prematuro. Proprio perché il compito della prima parte della vita è quello di affermarsi e spiccare, deve esserci un’esuberanza di forze proprie, che gli altri non possono che considerare aggressive. In base all’esplicarsi delle forze individuali si pongono i presupposti (visto che insistendo a dare colpi se ne ricevono anche!) per il desiderio di tirarsi un po’ indietro, nella seconda parte della vita. Si comincia allora a fare di meno e a riflettere di più, a pensarci su due volte prima di fare qualcosa, e piano piano si fa posto agli altri.

Questa maggiore saggezza che si accompagna al crescere dell’età, il non riuscire più a imporsi sempre e subito, porta l’impronta della depressione. Un essere umano che avesse in età adulta soltanto l’esuberanza delle forze vitali sarebbe un bambinone, conoscerebbe soltanto l’ag- gressività e non la depressione, gli mancherebbe un aspetto

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fondamentale dell’umano. Il karma dell’aggressività della prima parte della vita è la maggiore depressione della seconda.

Si potrebbe osservare questo processo anche nella psicologia dei popoli. Quando un popolo esubera di forze vitali giovanili, mostra aggressività nella vita sociale volta alla sopravvivenza, all’edificazione elementare delle strutture, poi all’allargamento dei confini, alla sfida col territorio e con i popoli limitrofi. Si crea così una cultura di forte pragmatismo e di volitività. Un popolo più avanti nei processi di coscienza diventa maggiormente riflessivo e depressivo, approfondisce e articola le problematiche, genera una cultura filosofica e introspettiva piuttosto che di conquista.

Il depressivo è una persona maggiormente in grado di vedere la complessità delle cose; l’aggressivo parte in quarta e non si pone tanti problemi. Il depressivo prima di partire ci pensa dieci volte, e poi magari non parte! Ma vanno bene tutti e due: ci vuole l’uno e ci vuole l’altro, e in fondo la sapienza della vita consiste nel sapere quando va meglio un atteggiamento e quando l’altro, è l’arte di saper giocare sia con l’uno sia con l’altro stato interiore. Non è un buon artista colui che sa suonare solamente nella tonalità maggiore: la musica comprende in sé anche la tonalità minore. L’aggressività è il tono maggiore, la depressione è il tono minore. Goethe dice: non c’è genio senza malinconia. Senza malinconia può essere un guerriero, non un genio. L’aggressivo vuole fare – e fa bene. Il depressivo vuole pensare – e fa altrattanto bene. E se nell’altalena della vita si riesce a fare nella giusta dose tutt’e due le cose, ancora meglio!

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Anche nell’evoluzione complessiva dell’umanità possiamo individuare una conduzione diversa prima e dopo della grande svolta. La prima metà dell’evoluzione non poteva che essere in chiave di prevalente aggressività, mentre nella seconda metà l’umanità tenderà a diventare sempre più “depressiva”. Deve svolgere il compito di pareggiare quella somma infinita di “solitudine”, sorta in ognuno come risultato complessivo dell’egoismo che è stato necessario per conseguire l’autonomia individuale.

Parlando di Ettore – l’eroe che nell’Iliade si presenta deciso e aggressivo, come una forza vulcanica che non si pone mai in questione –, Rudolf Steiner dice che dopo la grande svolta della storia la stessa individualità si ripresenta nel personaggio di Amleto, l’eterno indeciso. “Essere o non essere, questo è il problema…”, si chiede. L’esuberanza aggressiva e sicura di sè di Ettore si trasforma nell’interminabile depressione di Amleto, l’eterno incerto. L’umanità giovane, l’umanità matura. Quali mirabili compiti vengono qui dischiusi per il pensiero umano!

Il pareggio karmico dell’aggressività che si trasforma in depressione è anche la legge dell’evoluzione nella sua totalità, è la legge dell’esistenza umana, ed è anche la legge fondamentale della vita quotidiana. Ogni più piccolo colpo riceve in archi di tempo anche brevi il suo contraccolpo. Si tratta di osservare con attenzione sottile sempre più sottile questo oscillare nelle sue manifestazioni più concrete. Soprattutto il terapeuta deve sviluppare il cosiddetto occhio clinico per vedere come ogni piccola aggressività porti già in sè in forma latente una pur piccola depressione,

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e come ogni piccola depressione si risolva in una corrispondente aggressione. Nessuna depressione si può vincere senza diventare almeno un po’ aggressivi. Quando per esempio l’altro vuol aver ragione a tutti i costi o vuole da me quel che io non voglio, mi costringe a difendermi in qualche modo. E che cosa avviene in me quando mi dà senz’altro ragione…?

Il pareggio tra essere aggressivi e depressivi

Il dinamismo di natura interiore di questa polarità consi- ste nel fatto che ciò che si manifesta esteriormente è in un certo senso opposto a ciò che si vive dentro. In altre parole: l’essere umano non è mai o solo depresso o solo aggressivo, ma vive sempre, se pure in dosi omeopatiche, entrambi gli atteggiamenti. È proprio il convincimento che sia così, a farci comprendere che l’uomo non deve mai ricevere dal di fuori le forze che riequilibrano le sue unila- teralità, ma che le porta già dentro di sé.

Il rapporto tra esterno e interno può esprimersi in termini di latenza e di manifestazione: l’aggressivo è depresso in latenza, il depresso è aggressivo in latenza. Questa polarità è in fondo quella aristotelico-tomistica di potenza e atto.

Da che cosa sorge la potenzialità di depressione in un individuo aggressivo? Dal suo agire stesso: se sta rom- pendo il muso a tanti, potenzialmente pone anche le basi

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perché glielo rompano di rimando! Quindi in potenza, è tendenzialmente un depressivo. Si tratta di un dinamismo e di un’osmosi di forze che non sono mai statici: l’attuazione di una forza porta con sé la potenzialità di evocare l’altra. Ogni forza è la potenzialità del suo opposto, e lo attrae.

La depressione e l’aggressività vanno viste come un continuum di forze, non come due realtà statiche e opposte l’una all’altra. Le due esperienze estreme sono due realtà a sé stanti soltanto se le fisso in due fotogrammi e ignoro il movimento intermedio. Queste due foto istantanee cor- rispondono al tipico processo di astrazione del pensiero scientifico moderno che tende a isolare i fenomeni dal loro contesto vivente. Quando la realtà viene colta nella sua interezza si comprende che l’un polo rimanda dinamicamente verso il polo opposto.

L’aggressività e la depressione vengono congiunte fra di loro dal movimento continuo delle forze dell’anima, che entrano l’una nell’altra come le onde del mare. L’esperienza di essere aggressivo porta in sé dinamicamente l’attrazione irresistibile verso il polo opposto della depressione. E viceversa.

Tali considerazioni sono importanti per vincere la paura che sorge soprattutto di fronte a una fase depressiva molto prolungata e profonda. Qui può sorgere il dubbio esistenziale che le forze di risucchio verso l’altra sponda forse non esistano veramente, proprio perché tardano a manifestarsi. Solo colui che sa con certezza assoluta che queste forze ci sono, che non ne dubita affatto è in grado di contare veramente su di esse, confermandole con i suoi

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pensieri di fiducia e così rafforzandole. Colui invece che dubita non può far scomparire queste forze positive che rimandano all’altro polo, perché queste ci sono e restano. È però in grado di indebolirle, e proprio questo può contribuire profondamente all’aggravamento della situazione, nel senso di un ritardo o di una fatica maggiori nel superamento della depressione.

Perfino il suicida non si toglie la vita per il fatto che gli siano davvero mancate le forze positive, quelle capaci di superare ogni depressione. No, esse oggettivamente c’erano in lui e sarebbero anche state sufficienti a salvargli la vita. Ma è successo che questa persona in estrema difficoltà e coloro che le sono stati vicini hanno ignorato quelle forze reali e hanno omesso di evocarle non avendo contato su di esse.

La responsabilità morale nei confronti della positività intrinseca dell’essere umano, anche nei momenti più difficili della vita, riguarda ogni rapporto di terapia e di vera amicizia. Se questo rapporto è autentico, il terapeuta o l’amico sanno bene di far parte profondamente del karma, della vita di colui che soffre, e comprendono che proprio per questo egli si aspetta da loro – anche se non consciamente –, la fiducia più assoluta e la convinzione profonda e incrollabile che ogni Io vero viene alla vita per viverla nella sua totalità e pienezza, non per togliersela! Quando il terapeuta stesso, o l’amico, cominciano ad aver paura che il depresso si tolga la vita, con questa paura gli paralizzano la volontà positiva di vivere che nel suo Io vero c’è e che sarebbe necessario rafforzare per evitare il suicidio. L’ultima ragione

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per esistere, prima di uccidersi, è la fiducia terapeutica, cioè ricostituente, nell’essere umano stesso. Perciò questa fiducia non dovrebbe mai venir meno nel terapeuta e nelle persone care.

Dobbiamo ben distinguere tra non avere forze a disposizione, oppure averle senza farne uso. Quando un essere umano si toglie la vita si tratta sempre del secondo caso, mai del primo.

E possiamo anche comprendere che il dinamismo unitario e continuo delle forze dell’anima è per sua natura tale che più una posizione diventa unilaterale ed estrema e più diventa tanto insostenibile quanto insopportabile. Insostenibile perché ingiustificabile al livello del pensiero, insopportabile al livello di comportamento nel contesto armonico della vita. L’insostenibilità e l’insopportabilità – per sé stessi e per gli altri – della depressione e dell’aggressività estreme mostrano la non meno forte e oggettiva tendenza oggettiva a uscirne fuori. Questa spinta non è un’astrazione: è un dinamismo di forze animiche realissime che tendono per natura, e nel loro insieme, alla salute dell’anima. Solo che questa salute non consiste mai in una stasi – che sarebbe la morte dell’anima – ma in una vera e propria incessante altalena tra le forze della simpatia e quelle dell’antipatia.

Il linguaggio esoterico esprime questa realtà dell’anima col termine tecnico di pareggio karmico: il pareggio karmico dell’aggressività è la depressività, e viceversa. Ogni forza chiama in campo “per forza” la sua controforza. Il karma dell’uomo, di regola, è di diventare in una vita succes- siva una donna, e viceversa. Ognuno desidera diventare

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ciò che ancora non è, e il desiderio è fatto di forze reali che lo portano dinamicamente verso ciò che ancora gli manca. Questa “legge del karma” è in fondo la legge della fiducia nella totalità delle forze dell’anima, perché esse sono affidabili in senso assoluto.

Il troppo, il troppo poco e il giusto mezzo in Aristotele

Alla luce del nostro tema si possono riconsiderare le tre virtù che Aristotele ha ripreso da Platone, con la giustizia (quarta virtù platonica) che tutte le presuppone, tutte in quanto virtù del giusto mezzo. Le tre virtù sono la saggezza, il coraggio e la temperanza.

Quando diventa aggressiva la saggezza e quando depressiva? Il cammino verso la verità diventa depressivo nell’ottusità che sfocia nell’agnosticismo, nel relativismo, nella rinuncia a ogni ricerca di verità e nello scoraggiamento; diventa aggressivo nei confronti della verità nell’esaltazione che sconfina nel dogmatismo, nel settarismo, nel fanatismo. La saggezza vera è la forza di ritrovare sempre un equilibrio tra la deflazione del disinteresse e della rassegnazione e il voler agguantare, ghermire con violenza i misteri dell’esistenza.

La virtù del coraggio si vive nel ritrovare costantemente l’equilibrio tra la codardia, la tapineria (depressività del co- raggio) e la temerarietà, l’avventatezza (che rappresentano l’aggressività, il troppo del coraggio).

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La temperanza è la virtù che ricerca il pareggio tra l’aggressività dell’ascesi, della macerazione (che è una posizione di estrema violenza nei confronti della propria corporeità, per costringerla a dare anche quello che non può dare) e la dissolutezza, il lasciarsi andare, cioè la depressione nei confronti del proprio corpo.

Proprio considerando la dinamica intrinseca delle virtù platonico-aristoteliche vediamo che il giusto mezzo non è uno stato (statico), ma è l’espressione della tensione dinamica innata in ogni posizione unilaterale a ricercare ciò che le manca. In questa tensione, che l’essere umano può sia assecondare sia ostacolare, risiede la vera salute.

CONTINUA…

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